PROGETTO "YEAH", ERASMUS+ Nicola Peis, 29 anni El Salvador
L’anno che mi appresterò a descrivere è stato uno dei più belli, interessanti e importanti della mia vita, quindi non sono sicuro di riuscire con poche parole a dare la giusta dimensione ad una così grande esperienza, però proverò a raccontarvi le mie impressioni e descrivervi parte del lavoro e dei viaggi svolti durante questo straordinario E.V.S. (European Volunteer Service) a El Salvador. Ricordo ancora perfettamente le sensazioni dopo aver avuto la conferma di essere stato scelto come volontario italiano; i primi pensieri su come sarebbe stato vivere dall’altra parte del mondo, la ricerca di ogni tipo d’informazione riguardante la nazione ospitante, le prime mail con le mie future colleghe Irene (Spagna), Cristiana (Portogallo) e Bianca (Romania); i nostri primi scambi di opinioni, motivazioni e le incertezze prima della partenza. Da quel momento in poi è stato un turbine di emozioni; una ‘full immersion’ che mi ha tolto il respiro, un onda dalla quale siamo stati investiti, affascinati e trasportati che ci ha permesso di scoprire un Paese, una cultura, una maniera di affrontare e godere della vita, che solo dopo averla lasciata mi ha fatto capire realmente quanto mi abbia influenzato, ammaliato e si sia ‘attaccata’ alla mia persona; e quanto questo ‘Pulgarcito de America’, sia in realtà grande e ricco da restare nei cuori di chiunque ci passi o viva, anche se solo per poco tempo. Il progetto di volontariato e intercultura al quale ho partecipato, chiamato Y.E.A.H (Youth volunteering for Enviroment: Actives & Healthy lifestyles), ha avuto la funzione e l’obiettivo di avvalorare l’importanza dell’integrazione interculturale, la tolleranza e l’apprezzamento della diversità, tramite il lavoro educativo nelle scuole, il contatto e l’inserimento nella società; Il sostegno a uno stile di vita salutare basato sul rispetto dell’ambiente e delle persone; l’avvicinamento a realtà di emarginazione, violenza e povertà da combattere con l’educazione, il rispetto, la positività e il confronto; che in questo caso è avvenuto nelle varie attività che sono state svolte durante l’anno. Dopo le prime due settimane di orientamento, servite a noi volontari per conoscerci, ambientarci, prendere confidenza con la lingua parlata e istruirci sulla storia e cultura del Paese tramite lezioni e visite guidate con i tutor; è iniziato il vero e proprio ‘lavoro sul campo’. Mi sento di poter suddividere il mio percorso in tre grandi fasi, corrispondenti cadauna a un differente progetto di volontariato, che abbiamo svolto in diverse zone del Paese. Il primo in assoluto si è svolto a Zaragoza, paese che si trova a metà strada tra la capitale di San Salvador e il Porto de La Libertad che si affaccia sull’Oceano Pacifico. Qui abbiamo vissuto per sei mesi, in una casa fantastica immersa nella natura dove siamo stati accolti e ospitati da un ragazzo salvadoregno Carlos e sua madre, persone fantastiche con le quali abbiamo convissuto e ci hanno fatto sentire come a casa. A pochi passi dall’abitazione era situato il centro scolastico cattolico di C.A.O.R. dedicata a Monsignor Romero (personaggio importantissimo per storia della nazione, ricordato e amato da tutta la popolazione e costantemente presente con la sua immagine in ogni angolo del paese) dove abbiamo svolto tutto il piano di supporto e le attività scolastiche con i ragazzi. Dopo una piccola presentazione ai professori, nella quale abbiamo descritto con il nostro ancora incerto spagnolo le nostre motivazioni, caratteristiche professionali e i nostri obiettivi; c’è stata quella con gli alunni, dai bambini dell’asilo ai ragazzi delle superiori, che dal guardarci con stuppore e curiosità, sono passati ad essere i nostri piccoli grandi maestri. Abbiamo lavorato ciascuno a diversi incarichi e in differenti materie, in modo da introdurci a poco a poco nel sistema educativo e dare un aiuto ai maestri, ai professori e ai ragazzi. Mentre le ragazze volontarie svolgevano supporto nelle lezioni d’inglese e informatica e rafforzo con i ragazzi che avevano problemi, in quanto pedagoghe, motivatrici e specializzate nel sociale; il mio è stato nel campo artistico e sportivo, con la creazione di un laboratorio di pittura e manualità e l’assistenza durante le ore di educazione fisica, con i bambini più piccoli al mattino e con i ragazzi delle medie e superiori nel pomeriggio. Le mie attività consistevano principalmente nell’aiuto all’organizzazione della lezione, nell’insegnamento dei principi e regole base dei vari sport; nell’organizzazione di tornei sportivi interni e spesso, passai dall’arbitrare partite di calcio maschile e femminile al giocare io stesso con i ragazzi più grandi, o fare con loro i test di corsa e resistenza, per i quali in seguito venivano valutati. Il giovedì e venerdì, prima con le mie colleghe poi solo, svolgevo il laboratorio d’arte al quale hanno partecipato volontariamente diversi ragazzi del Bachilerato (superiori), poi diventati un vero e proprio gruppo di lavoro col quale abbiamo ridipinto tutte le pareti della zona asilo creando murales che rappresentavano la natura, gli animali e i giochi caratteristici di El Salvador, così da far sembrare che i bimbi giocassero il un grande giardino. Durate questi mesi abbiamo vissuto una vera e propria evoluzione formativa e caratteriale. Nei primi tre, abbiamo inoltre seguito un corso di spagnolo che unito alla pratica quotidiana alla scuola ci ha veramente portato ad un livello superiore di comprensione, d’interazione e di conseguente integrazione sociale; consolidata nei mesi successivi. Con i professori e i ragazzi si è instaurato rapidamente un grande rapporto di confidenza e amicizia, e oltre ad essere accolti sempre da grandi sorrisi e sinceri abbracci dai parte bambini, seguivano un infinità di domande sui nostri Paesi d’origine, sul modo di vivere, sul cibo, sulla musica, e ovviamente essendo stato in corso il mondiale di calcio, pareri calcistici e pronostici, seguite ahimè anche dagli sfottò quando le nostre nazionali perdevano. Ai compiti e le attività quotidiane si univano quelle del nostro tempo libero. Abbiamo avuto la fortuna di conoscere da subito tanta gente grazie ai volontari che ci hanno preceduto creando un vero e proprio gruppo di amicizie, che già dal primo mese ci hanno introdotto e reso evidente che il Paese, nonostante sia conosciuto per la criminalità e pericolosità, è abitato da persone fantastiche, accoglienti e orgogliose della propria terra, che con impegno e piacere ce l’hanno mostarta in tutta la sua bellezza. Quasi tutti i fine settimana organizzavamo delle gite ed escursioni, che ci hanno permesso di conoscere la grande varietà di paesaggie e tradizioni in quasi tutti i dipartimenti e regioni dello stato. El Salvador, è soprannominato anche il Paese ‘della mezz’ora’, in quanto in così poco tempo ci si puoi spostare dalla città alla spiaggia, dal vulcano al lago, dalla montagna ai piccoli folkloristici villagi dell’entroterra. E così di mezz’ora in mezz’ora, di settimana in settimana, abbiamo visitato i siti archeologici de la Joya de Ceren e San Andres e le sue rovine Maya, percorso la Ruta de las Flores di paesino in paesino partecipando con i propri innumerevoli festival musicali e culinari; abbiamo scalato il Vulcano di Sant’Ana e scesi fino alla parte di più bassa del cratere del Boqueron; siamo passati dal punto più alto e freddo del paese del Pital a la Puerta del Diablo con i sui incantevoli panorami; dalla barca sul lago Coatepeque all’alto faro del lago de Llopango; dalle mangrovie più vaste del centro america della Bahia de Jiquilisco fino alle isolette de La Union, dall’Isola Zacatillo fino all’ultima striscia di terra salvadoregna del Golfo de Fonseca, per poi ammirare i tramonti del la Playa del Tamarindo, del Zonte o trascorrere magiche giornate e nottate a la Playa del Tunco. Insomma abbiamo girato in lungo e in largo tutta la nazione che non smettava mai di offrirci nuovi orizzonti ed esperienze. La seconda fase di questo nostro percorso è stata come entrare in maniera più profonda e consapevole nel ruolo di volontario e nel conoscimento culturale. Ormai non ci soprendavamo più per qualsiasi cosa come al principio, ma avevamo metabolizzato le varie novità quasi da sentirle già nostre e così i sapori, gli odori, i colori, il clima tropicali sembravano a poco a poco appartenerci; i nostri ruoli cambiarono e tutto il progetto prese una nuova piega. Nei mesi succesivi alla conclusione dell’anno scolastico da ottobre a gennaio, corrispondenti con la fine dell’inverno, siamo stati impegnati con un progetto di valutazione per conto di una Ong Internazionale chiamata Plan, che opera in circa ottanta differenti nazioni del mondo. Per noi credo che oltre un interessante alternativa lavorativa è stata anche una prova d’esame, perché dal supporto nei precedenti incarichi diventammo noi i veri e propri portagonisti e responsabili del programma. Il nostro compito era valutare attraverso questionari, dinamiche di gioco e apprendimento il lavoro fatto durante l’anno dai professori e dai ragazzi partecipanti al progetto chiamato Aflatoun, che patrocinato dalla Banca Scotiabank, aveva il compito di educare e promuovere il sistema di risparmio finanziario e delle risorse, unito alla difesa dei diritti dell’infanzia. Per diverse settimane abbiamo eseguito questa raccolta d’informazioni, passando dall’ufficio centrale alle varie scuole nelle diverse comunità del dipartimento de La Libertad. Ogni giorno ciascun volontario aveva il suo percorso da effettuare e accompagnati con una macchina dell’associazione, muniti di casacche che mettevano in evidenza il grande logo Plan, simbolo che richiamava l’idea di aiuto per le comunità e di conseguenza accettato nelle zone più povere e pericolose, ci accingevamo a svolgere il lavoro per poi prima dell’imbrunire rincontrarci in sede per la consegna del materiale. Credo fermamente che sia stato uno dei momenti più importante e di svolta nell’evoluzione del nostro volontario; infatti siamo stati in grado di guidare autorevolmente le dinamiche, di dialogare con i ragazzi, di raccogliere i dati e i contenuti che ci hanno permesso di stilare un valido reportage che sarebbe servito in seguito come valutazione per l’associazione e i suoi finanziatori. Oltre la parte strettamente legata al progetto abbiamo potuto apprendere e comprendere le reali situazioni di disagio che i ragazzi vivevano, evidenziato dalle loro semplici ed esplicite parole, dai racconti o dai loro disegni. E’stato come uno specchio che ha riflesso le problematiche di una società ancora povera, arretrata e maschilista, che fa i conti ancora con la mancanza di cibo, d’istruzione, di case e strutture d’accoglienza e con l’altissimo tasso di disocuppazione, violenze, abusi e omicidi; spesso legati alla delinquenza e alle pandillas o maras (gang criminali) vera e propria piaga sociale, in alcune zone così forti da dettare regole e decidere sulla vita delle persone. E’ stato notevole vedere anche come i bambini delle zone costiere abituati a vivere a stretto contatto con i turisti erano più aperti al dialogo e partecipativi, spesso già in grado di parlare due lingue, pronti ad ascoltare e incuriositi dal nostro differente accento; mentre quelli delle zone più interne avevano un modo più chiuso e diffidente di affrontare dialoghi e relazionarsi, probabilmente anche perché trattavamo argomenti delicati che loro vivevano in prima persona. Tutta questa varietà di situazioni che il lavoro ci ha proposto, ci ha permesso di capire meglio le tante sfaccettature della cultura e della vita in America Latina e in particolar modo di questo Paese. Abbiamo inoltre potuto notare le caratteristiche comuni e le differenze rispetto alle nazioni confinanti, visitate nei nostri viaggi e nelle nostre avventure, intraprese spesso solo armati di mochilla (zaino), un grande spirito di gruppo e tanta, tanta voglia di conoscere. Siamo stati quindi in Guatemala, nella affascinante città di Antigua; in Honduras in tanti incantati ‘pueblitos’, con le loro peculiari piazze e bianche chiese, dove il tempo sembrava si fosse fermato; alle rovine di Copan con le sue imponenti statue e templi Maya; all’isola di Utila con le sue feste e nei meravigliosi Cayos, atolli dall’acqua cristallina; scendendo lungo tutto il Nicaragua per arrivare a San Juan del Sur, con il suo spettacolare golfo e belvedere dominato dalla gigante statua del Cristo; fin in Costa Rica e la sua natura selvaggia, abitata da bradipi, scimmie ed iguane che ci accompagnavano nelle nostre pedalate kilometriche nella costa caraibica fino alla grande Capitale di San Josè. Grandi viaggi, percorsi e luoghi che non mi stancherò mai di ricordare. Nell’ultima fase e periodo dell’anno abbiamo continuato la collaborazione con Plan, che dopo il nostro precedente incarico ci ha assegnato la partecipazione a un progetto di sicurezza alimentare e nutrizionale per l’emergenza della Roya; animale che ha causato la morte di un altissima percentuale di piantagioni di caffè e che ha messo in ginocchio le famiglie che vivono del lavoro nelle tenute agricole. Il nostro lavoro era di monitoraggio degli orti nelle zone di Comasagua e Santa Tecla, nelle comunità situate sulle montagne e zone a ridosso della capitale. L’assistenza consisteva nell’ispezione e controllo degli orti, nella partecipazione ai vari stage educativi e nel supporto durante la consegna dei buoni spesa e l’acquisto nei supermercati. Plan in collaborazione PMA (Piano Mondiale per l’Alimentazione), individuavano le comunità più in difficoltà, sceglievano i beneficiari e organizzavano il piano di sostegno e la distribuzione dei vari aiuti. Operatori specializzati, come agronomi, salutisti e sociali guidavano le abilitazioni durante le quali le famiglie venivano istruite sulle proprietà degli alimenti, sull’importanza di una nutrizione salutare effettuando talvolta prove pratiche di cucina in cui si mostrava la possibilità di avere una dieta variegata e genuina con i prodotti che la terra e i loro orti offrivano. Abbiamo preso parte inoltre a stage sull’agricoltura, dove venivano esposte le modalità e i tempi di semina e raccolta dei vari prodotti; costruzione di impianti d’irrigazione semplici ricavati da semplici bottiglie d’acqua a quelli un po’ più complessi come quelli a goccia composti da tubature, valvole e costruzioni con materiali messi a loro disposizione dalle associazioni. Sempre con le solite modalità di lavoro che ci permettevano di muoverci e agire in sicurezza, ci presentavamo nelle diverse comunità che eleggevano il loro proprio rappresentante, il quale ci accompagnava nelle singole case, dove venivamo accolti con il sorriso e la voglia di mostrarci il risultato del loro apprendere e delle tante ore di lavoro. Fotografavamo e registravamo la dimensioni degli orti e le ore impiegate in rapporto alla forza lavoro messa a disposizione. Personalmente tutto questo è stato per me di grande impatto, è stato un po’ come tornare indietro nel tempo e capire realmente le difficoltà che ancora oggi tante persone vivono per soddisfare le necessità basiche. Spesso in diverse zone non si aveva neanche disponibilità d’acqua, quindi si dovevano affrontare percorsi lunghissimi e impervi e per raggiungere una fonte dove riempire le botti, che caricate sulla testa delle signore anziane o dei ragazzi venivano trasportate per chilomentri fino ai villaggi per tener vivo il proprio orto. Siamo stati accolti in comunità dove le case erano composte da materiali di scarto, lamine o fango e paglia, quasi sempre abitate da famiglie numerose che dovevano fare i conti la disoccupazione, la vecchiaia dei capi famiglia o magari con problemi di salute e un sistema sanitario che non li tutelava. In tutti questi difficili casi ho comunque notato e ammirato la voglia di affrontare i problemi in maniera positiva e solidale. Gli anziani, le giovanissime madri, i ragazzi tutti i giorni si mettevano a disposizione cercando di mettere a frutto tutti gli insegnamenti che gli venivano offerti, nonostante non avessero mai studiato o mai coltivato. Il risultato del loro impegno era evidente e si rifletteva nei loro occhi pieni d’orgoglio al momento di presentare le loro piccole colture, le verdure, i legumi o magari le pietanza che si accingevano a cucinare. Parlare poi con loro, frequentare le lezioni con loro, ci ha permesso di instaurare un rapporto umano che mi ha fatto ulteriormente riflettere; vedere ragazzi come me che faticavano una giornata intera per quattro o cinque dollari, per soli quindici giorni al mese, mi hanno dato una visione differente riguardo l’importanza che loro e noi diamo al denaro. Il lavoro nelle settimane in cui venivano consegnati i buoni spesa, consisteva nell’accogliere le famiglie al supermercato, nell’ indicare i prodotti consentiti all’acquisto, quelli salutari, naturali, quelli artificiali e nocivi per la loro salute, le quantità consentite, e infine l’aiuto nel calcolo finale che doveva essere di cinquantadue dollari, da sfruttare fino all’ultimo centesimo. Anche in questo caso si poteva notare come le famiglie si mobilitassero e si aiutassero tra loro, con l’affitto di un mezzo, quasi sempre un camion che avrebbe accompagnato e riportato a casa decine di persone cariche delle loro buste della spesa. I beneficiari, spesso anziani venivano accompagnati dai nipoti muniti di quadernino per appuntare i prezzi e i prodotti necessari, spesso un cellulare o una calcolatrice per aiutarli nei conti. Nei supermercati rincontravamo tutte le persone che visitavamo durante monitoraggio del lavoro sul campo, che ci abbracciavano e chi chiedevano di tornare, per vedere come procedevano le coltivazioni. Alla fine di aprile arrivò il triste momento dei saluti; volgeva al termine il nostro anno di volontariato, che coincise precisamente con il termine di questo programma d’aiuti che non poteva più sostenere con fondi e costante presenza le comunità, comunque messe in condizione di dare continuità al progetto in maniera autonoma, fino al prossimo finanziamento. Durante quest’ultima fase lavorativa è avvenuto il trasferimento nella Capitale che ha segnato la nostra completa integrazione nel mondo salvadoregno. Io ho vissuto a casa di un salvadoregno, giocavo a calcetto con i vicini , facevo la spesa al mercadito, e avevo i miei posti favoriti dove mangiare pupusas o burritos. Nonostante ogni volontario alloggiasse in abitazioni differenti, siamo sempre rimasti uniti nel lavoro, nelle uscite, nei viaggi e nel tempo libero, continuando ad essere amici prima che colleghi, sostendoci e godendo a pieno questa grande avventura. E così di progetto in progetto, da una scuola all’altra, tra le città e le campagne, le famiglie e gli amici, il nostro anno di volantariato e vita qui a El Salvador è volto al termine, volato direi io. Tornando a casa non potrò mai dimenticare tutte le emozioni che questo posto mi ha ragalato. Mi mancheranno i sapori forti della cucina, i frutti tropicali, la fresca cerveza, la musica, i balli, e le nottate che ho condiviso con tutte le persone che qui conosciuto e che mai mi hanno negato un sorriso, dai venditori in strada fino ai miei cari amici. Ho conosciuto persone veramente speciali, e forse è proprio questa la più grande ricchezza che offre questo Paese. In quest’anno sono stato chiamato italiano, volontario, profe, amigo, Nico e mi amor, è mi ha incantato essere ognuna di queste cose. E’ per questo motivo che dopo aver ringraziato tutti, il mio saluto a El Salvador non è stato un ‘Adios’, bensì un ‘hasta luego’ un arrivederci a presto, prestissimo. Il consiglio che mi sento di dare a chiunque intraprenda un volontariato o un viaggio o un avventura, è di farlo senza timori, lasciandosi trasportare, guardando le cose con gli occhi e la curiosità di un bambino, captando le vibrazioni che un luogo, dei paesaggi, della lingua o che una persona o un popolo ti danno, cercando a tua volta di offrire e dare tutto ciò che puoi, perché alla fine si verrà sempre ripagati, e si tornerà a casa tanto più ricchi di quanto siamo stati alla partenza.